Divenuti adolescenti, la metà di loro abbandonano. Cosa succede? Quali i motivi di questa improvvisa disaffezione? Il fenomeno, denominato “drop out”, sempre più diffuso, ha attirato l’attenzione di numerosi psicologi, terapeuti, istruttori che hanno individuato attraverso i loro studi varie e differenti motivazioni.
L’agonismo esasperato fin da giovanissimi. Il risultato a tutti i costi. L’illusione preclusa di divenire dei campioni. Nuovi interessi. Genitori e, in genere ambiente esterno, troppo esigenti e pressanti. Il venire meno di divertimento e motivazioni. All’origine dell’abbandono, quindi, non un’unica causa, ma più elementi spesso concomitanti. Ma, come ci dice Maurizio Mondoni, docente di Teoria, tecnica e didattica dei giochi sportivi al Corso di laurea in Scienze Motorie e dello Sport all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: “Per capire il perché un ragazzo improvvisamente lascia un’attività sportiva che ha praticato per anni è necessario comprendere quali sono le molle iniziali che gli hanno fatto decidere di intraprenderla. E tra queste su tutte il divertimento, la gioia di giocare, di fare parte di un gruppo, conoscere nuovi amici. Se i giovani non trovano soddisfatti questi loro bisogni primari, lasciano”.
LA VITTORIA AD OGNI COSTO — Molte volte, tuttavia, nell’attività motoria proposta dagli adulti non c’è gioco, gioia e allegria. Al loro posto pressioni eccessive, agonismo esasperato, allenamenti noiosi. “Sono molti gli allenatori molto più preoccupati a vincere o a non perdere – precisa Maurizio Mondoni - piuttosto che interessati alla prestazione dei propri atleti. Chiedere o pretendere da un bambino, fin dalla sua prima esperienza sportiva, la vittoria ad ogni costo, magari promettendo anche ricompense, può influenzare negativamente il processo di sviluppo delle sue motivazioni a continuare a praticare lo sport. Se a questo si aggiunge un inadeguato supporto emotivo nei momenti delicati degli insuccessi e delle sconfitte, si creano le premesse per cui il bambino giocherà non tanto per se stesso, ma per le richieste, per lui a volte incomprensibili, del nostro mondo fatto a misura di adulto”.
L’IMPORTANTE È LA PRESTAZIONE, NON IL RISULTATO — La componente agonistica è innata: a nessuno piace perdere. Ha per altro anche una valenza positiva per la crescita psichica ed emotiva degli adolescenti, ma va assolutamente rifiutata come filosofia e unico obiettivo, come un qualcosa di indispensabile per essere accettati e avere successo. “E’ fondamentale insegnare ai ragazzi a gestire la sconfitta e a utilizzare gli errori - precisa Mondoni -, credendo in loro, apprezzando i loro sforzi e sollecitandoli continuamente a essere volonterosi e tenaci. Il giovane non ha fallito se, pur perdendo, ha dato il massimo. Ogni atleta desidera essere rinforzato per la qualità della sua prestazione più che per la vittoria. Se un giovane commette un errore non lo si deve punire, ma fargli capire dove ha sbagliato e cosa dovrebbe fare per correggersi, utilizzando un linguaggio sempre positivo. Quando l’atleta è a conoscenza che il suo allenatore vuole il massimo dal suo impegno e per questo è rinforzato, non avrà più paura di provare e riprovare, accrescendo così la propria autostima. Al contrario, se il giovane si aspetta di essere premiato solo in base al risultato, pensando alle possibili conseguenze negative delle sue iniziative, avrà il timore di fallire, mostrando ansia e insicurezza”.
PER PREVENIRE L’ABBANDONO — E’ stato ampiamente dimostrato che esasperare l’attività agonistica in età precoce, da non confondersi con un avviamento precoce all’attività motoria e al gioco, è la strada sbagliata, quella che con maggiori probabilità porta al “drop out”. Per evitare che ciò accada si deve affrontare il problema alla radice. “All’inizio si deve far giocare il bambino allo sport – prosegue Mondoni – e non fargli praticare lo sport. Gli allenamenti devono essere divertenti, interessanti, didatticamente validi, con obiettivi legati all’età e al livello di maturazione di ciascuno. L’allenatore non deve essere un leader autoritario, ma autorevole, non deve essere troppo permissivo, ma empatico, motivatore, stimolatore, entusiasta. Deve potere instaurare con i ragazzi un dialogo sincero e creare un clima di gruppo positivo, in cui si respiri aria di collaborazione, fiducia, sostegno e stima reciproca. Infine, i genitori, pur essendo assolutamente indispensabili nell’organizzazione pratica delle giornate dei propri figli, devono interferire il meno possibile, evitando di esercitare pressioni e di riversare su di loro eccessive aspettative”.
Tratto da "La gazzetta dello sport" del 06-03-2013.
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