Avevo paura di correre. Sovrappeso, sedentaria, insicura nel mio corpo che fino ad ora mi è sempre sembrato un po’ un fardello, un attrezzo che devo svogliatamente mantenere. Ero quella che al liceo nessuno sceglieva mai per la propria squadra, che arrivava sempre ultima, un po’ per mancanza di coordinazione, un po’ perché la natura mi ha fatto piccolina e morbida. Ma non solo: se ti convinci di non essere portata a fare qualcosa, se la tua convinzione viene amplificata da famiglia, compagni e insegnanti, in breve diventa verità.
Della mia testa mi posso fidare, funziona bene, è un cervello forte e allenato e produce storie che sono state lette da oltre mezzo milione di persone; ma il mio corpo, nonostante abbia fatto il miracolo di creare due piccoli esseri umani, è un compagno di viaggio che mi porto dietro con una certa sfiducia. E così mi sono ritrovata a quarant’anni, dopo aver vissuto in tre paesi, cambiato sei case, fatto tre gravidanze e due figli, seppellito mio padre e altre mille normali e straordinarie prove della vita, terrorizzata da un paio di scarpe da ginnastica. In un momento di follia, mi sono iscritta a un’iniziativa di beneficenza che richiedeva di camminare, correre o andare in bicicletta per cinque km ogni giorno. Ovviamente io avrei camminato. Non si discute. Correre cinque chilometri?Impossibile. Una sofferenza. E poi, una chiara mattina scozzese, mi sono infilata le scarpe per fare la mia lunghissima passeggiata, e ho pensato magari corro per cinque minuti. Vediamo come va. Se mi ammazza smetto. E poi non mi vede nessuno qui, nessuno può ridere di me e di quanto ansimo. Corro e non lo dico a nessuno. Sono partita, ed è successo qualcosa di magico: l’etichetta che mi portavo sulla fronte, quella che diceva ‘non posso’, mentre correvo nei boschi si è staccata ed è volata via. Mi scoppiavano I polmoni e mi batteva il cuore così forte che credevo mi sarebbe saltato fuori dal petto, mentre I miei piedi volavano sul terreno instabile e fangoso del bosco, ed ero felice. Felice in un modo che finora ho sempre solo provato in un modo solo: scrivendo. Ma ora non era la mia testa a volare, era il mio corpo, accettando la sfida e cantando di gioia e chiedendo di più, di più. Dicendomi che voleva correre, voleva respirare e voleva vivere. Sono tornata a casa che un po’ non ci credevo. Un’illuminazione sulla via di Damasco? Alla mia età? per qualcosa di così alieno come la corsa? Ebbene sì. Mi sono trovata ad aspettare con ansia la mattina dopo per poter uscire di nuovo, a contare le ore alla mia prossima corsa, a detestare i giorni (necessari) di riposo. Piano piano, con mio immense stupore, mi sono trovata ad allungare le distanze, proprio io, con le mie gambe corte e cicciottelle e il mio corpo di quarantenne sedentaria: da due chilometri a quattro a sei senza mai fermarmi. Corro da sei settimane soltanto, e moooolto piano, ma quei sei chilometri fatti senza mai fermarmi mi sono sembrati un miracolo. Sono orgogliosa di me come se fossi Mo Farah. Perche vedete, quell’etichetta che mi portavo sulla fronte e che è volata via correndo, non è l’unica. Sono cosparsa di ‘non posso’, ‘non ce la faccio’, ‘rideranno di me’, e queste etichette non le voglio piu’. La corsa è diventata un simbolo della forza che dorme dentro di me e aspetta solo di essere risvegliata, e chissa’ dove mi portera’? Tu vedi una donnina di mezza eta’ che corre piano per le strade di una cittadina scozzese; io vedo la determinazione e la potenza di una donna che mai piu’, mai piu’, dira’ ‘non posso’. Non sono piu’ terrorizzata dalle mie scarpe da ginnastica: non vedo l’ora di infilarle. Prossimo traguardo? I 10 km, fatti senza sosta. E poi, chi lo sa? Il trail mi intriga, e perche’ no? Dopotutto, la corsa mi ha insegnato che io posso.
Daniela Sacerdoti è piemontese ma vive in Scozia con il marito e due figli. È autrice di cinque libri usciti in Gran Bretagna, il primo dei quali è appena stato pubblicato in Italia: Ho Bisogno di Te (Newton Compton).
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