Solo una cosa è per sempre, insinua un noto slogan quando c’induce ad associare la profondità dell’amore verso una persona con l’oggetto della ben nota pubblicità. La durezza del diamante evidenzia la sua inossidabile resistenza al passare del tempo.
Tutto il resto in natura è invece destinato a deperire, specialmente nel nostro corpo, sul quale i segni del tempo sono più o meno evidenti. Li possiamo rilevare dal deterioramento dei tessuti che alterano l’aspetto esteriore di una persona, un processo che fa impazzire i fanatici dell’estetismo. Noi podisti invece ci “disperiamo” per lo scadimento delle prestazioni atletiche. Da una parte quindi ci sono individui che vorrebbero essere come una statua di cera, perfetta ed immortale, ma immobile. Dall’altra invece ci sono i menefreghisti dell’estetica ma gli esaltati dall’efficienza fisica. Insomma, per alcuni meglio brutti ma veloci. Un’utopia per entrambi ovviamente, anche per chi sarebbe tentato d’invidiare Benjamin Button, pur di esprimere il massimo rendimento fisico all’approssimarsi della pensione.
Con il passare degli anni il nostro corpo perde di efficienza, e maledettamente in fretta giacché il massimo consumo di ossigeno declina già prima dei trent’anni. Poco male per noi podisti aerobici perché il nostro motore utilizza altre componenti energetiche. E poco oltre i trent’anni si riduce l’efficienza della contrazione muscolare che porta ad un calo di forza, e quindi a muscoli che spingono di meno e diventano più vulnerabili allo stress. Anche il cuore è un muscolo che non esprime forza, ma pompa il sangue con meno efficacia ai mitocondri affamati di ossigeno.
Per fortuna la resistenza evidenzia una parabola discendente molto meno accentuata di altri elementi fisiologici, ed è su questo più lento declino che s’appiglia la gran parte dei podisti per illudersi che l’inesorabile passare del tempo sia meno incisivo.
La soluzione che la gran parte dei podisti sceglie per contenere l’invecchiamento atletico, è il mantenimento degli elementi meno deboli, trascurando i punti più vulnerabili. Una scelta legittima che però non porta ad osteggiare in modo efficace l’invecchiamento perchè per contrastare il passare del tempo l’atleta deve percorrere sempre più chilometri. Tale scelta non è né tanto pratica e neppure consigliata perché 1) richiede più tempo a disposizione – e gran parte dei podisti ha proprio difficoltà a gestire il tempo – 2) l’aumento del chilometraggio rallenta ulteriormente le prestazioni.
Il passare del tempo è come l’inflazione: ogni anno toglie potere allenante ai chilometri che si percorrono. Di logica quindi si dovrebbero investire le proprie energie in sollecitazioni che pagano dividendi che superano l’erosione inflativa del tempo.
Di logica quindi meglio scegliere stimoli allenanti con i quali ci s’impegna poco ma consentono di migliorare molto piuttosto che lavorare molto per riscontrare modestissimi incrementi prestativi. Vale a dire, più qualità e meno quantità.
Il cronometro ci evidenzia l’entità dell’inflazione e noi tutti siamo condizionati da come rotolano i numeri dentro questa piccola scatola di plastica. Si usa il cronometro per valutare quanto veloce corre un podista, e la velocità del suo passo dipende da vari elementi, ovviamente organici e muscolari. Ma per valutare quanto forte procede un corridore si dovrebbe misurare la durata della fase di appoggio del piede a terra. Quanto più è breve, tanto più velocemente si corre, ed un piede rimane poco a contatto con il terreno quanto più i muscoli riescono a sfruttare la reattività e l’elasticità. Queste caratteristiche fisiologiche consentono all’atleta sia di correre velocemente, ma anche con il cosiddetto stile efficace e redditizio. I podisti dotati di buona elasticità e reattività sviluppano una “bella falcata” e sembrano “volare” (proprio perché stanno poco a terra).
A tutti piacerebbe correre come un keniano, proprio perchè gli africani in genere sono dotati di tale caratteristica, ma pur essendo un elemento della preparazione di rilevante efficacia, ci sono circostanze che non lo rendono facile da mantenere e migliorare. Non sapendo come agire per mantenere e migliorare questi aspetti, i podisti in genere lasciano che il tempo adombri l’efficacia specifica del tessuto muscolare. La conseguenza della riduzione dell’elasticità di corsa è una falcata sempre più corta ed il baricentro sempre più basso. Se quest’ultimo aspetto è da considerare positivo per i corridori di resistenza perché riduce la spesa energetica, va però anche valutato come sia un processo che andrà sempre più peggiorando: ogni anno si rischia di perdere cinque centimetri di falcata, e ad una certa età si fanno passi di due metri, e quindi falcate da cento centimetri. In queste circostanze difficile distinguere un podista da un camminatore. Esagero ovviamente, ma noto come buona parte dei podisti procede, come si afferma nella mia terra, da “caregoto”, ad evidenziare una corsa seduta, povera di ogni elemento muscolare.
Migliorare l’elasticità e la reattività non è facile e sono il primo ad evidenziarne le difficoltà ed anche le controindicazioni. Per il primo aspetto si dovrebbero fare esercitazioni particolari, e cioè tutta una serie di “balzelli”: corsa calciata, a ginocchia alta (skip), avanzamenti a passi ampi (balzi), avanzamenti verso l’alto, saltelli su una sola gamba e altro. Per il secondo aspetto si deve considerare che i tessuti tendinei potrebbero subire tensioni elevate, e quindi aumenta il rischio d’infortunio.
Ci sono però modi semplice per sollecitare i muscoli a restare elastici e reattivi, facili come un gioco.
Il salto con la corda è uno tra questi. Ci si rende conto che per “stare al gioco” bastano veramente leggeri balzelli che viene spontaneo eseguire sempre sull’avampiede. Consiglio di iniziare davvero con poco, come la tabella che si suggerisce ai podisti principianti (1’ di balzelli + 1’ al passo) perché i polpacci diventeranno presto duri e gonfi, ad evidenziare quanto poco si è allenati a spingere di piedi nonostante di falcate se ne facciano a migliaia in ogni allenamento.
Il secondo gioco è il fartlek, una corsa a piacere e a sensazione (la traduzione di questo termine scandinavo sta proprio per “gioco di velocità”) da fare in natura, senza alcun condizionamento tecnologico. Per rispettare le indicazioni “nordiche” si dovrebbe correre immersi nella natura: campagne, parchi, boschi sono luoghi ideali per mettere in pratica il fartlek. Solo i numeri sono un limite alla pratica dell’allenamento variato in natura, vale a dire tempi, ritmi, recuperi e prove. La regola assoluta da seguire è “corro come mi sento”. Tutto si misura quindi sulla voglia di stressare l’organismo. Suggerisco di correre in circuito per inserire elementi che stimolano ad esprimere la fantasia: salite, discese, avvallamenti, fossi ed ostacoli da superare. Stimolante deve essere la sensazione di mettersi alla prova.
Ultimo elemento utile a non perdere efficienza a livello muscolare e che sia sempre divertente, è la corsa sui sentieri, non per questo da intendere “trail”. Si tratta di correre fuori strada, su fondo irregolare e tracciati ricchi di salite e discese, di varia pendenza (va bene ripidi ma non tali da indurre a procedere al passo se non occasionalmente), e non molto lunghi (massimo un chilometro). La semplice corsa, senza imporsi di variare il passo, porta a cambiare spesso l’azione meccanica, passando da falcate piuttosto corte e quindi passo agile (che sollecita i polpacci) a falcate più ampie e potenti (che chiamano in causa quadricipiti e glutei). Anche in questa circostanza il cronometro e tutto ciò che serve a misurare, può essere lasciato a casa.
Il più elevato valore del massimo consumo di ossigeno rilevato su un podista è stato misurato ad un corridore svedese, specialista di orienteering. Per mantenersi forti quindi non è necessario misurare ogni allenamento con il cronometro. A volte “perdersi” per sentieri può essere davvero molto allenante.
Orlando
Articolo pubblicato su Correre a Febbraio 2012 (n° 328).
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